La pandemia da COVID19 è partita da un’infezione zoonotica in uno dei mercati di animali di Wuhan in Cina. In questi mercati asiatici caratteristici, chiamati “wet market”, gli animali vengono sottoposti a condizioni igienico-sanitarie precarie. È stato ipotizzato come il nuovo coronavirus Sars-CoV-2 si sia originato nei pipistrelli e abbia infettato l’uomo attraverso un ospite intermedio, molto probabilmente un pangolino. Questo non rappresenta il primo caso coronavirus che ha eseguito il cosiddetto salto di specie, proprio a partire dai pipistrelli, negli ultimi 20 anni: basti pensare infatti al virus della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) nel 2002 (prima di infettare l'uomo, l'ospite intermedio è stato rappresentato da uno zibetto), a quello della MERS (Middle East Respiratory Syndrome) nel 2012 (prima di infettare l'uomo, l'ospite intermedio è stato rappresentato da un cammello) e a quello della SADS (Swine Acute Diarrhea Syndrome) nel più vicino 2016. I mercati di animali e gli allevamenti intensivi rappresentano una strada spianata per l’evoluzione dei virus, salto di specie e innesco di una pandemia del genere. Basti pensare all’influenza suina del 2009, che ha portato alla morte di mezzo milione di persone, e ha evidenziato come l’allevamento industriale e intensivo di maiali possa rivelarsi un’autostrada per le pandemie virali.
Viviamo in un mondo dove non è l’industria che si adegua alle esigenze degli animali, ma sono gli animali che si adeguano alle esigenze dell’industria.
Altro esempio è quello riguardante il virus H5N1 o altri virus aviari, dai quali è emerso come gli allevamenti intensivi di polli rappresentino un ambiente adatto alla mutazione e all’evoluzione di questi virus per il salto di specie e conseguente infezione umana. Il virus H5N1, così come l’H7N9, caratterizzati da un’elevata contagiosità uomo-uomo e la cui infezione è associata ad un elevato tasso di mortalità, sono ancora in giro, non sono stati sconfitti e stanno continuando a mutare. Questi virus aviari sono stati diffusi a causa dell’industrializzazione degli animali.
Nel lontano 2007 L’American Public Health Association pubblicava un lavoro nel quale evidenziava esplicitamente come fosse importante ridurre gli allevamenti intensivi e, nel contempo, il consumo di carne, come adozione di misure preventive in ottica di epidemie virali. Tutto ciò significa prevenire infezioni sconosciute in futuro che potrebbero derivare proprio dagli allevamenti intensivi, dal modo in cui gli animali vengono trattati in questi allevamenti industriali e dal consumo di carne. Era il 2007 e gli autori concludevano come “l’umanità non stesse neanche considerando questa opzione”. In effetti con gli anni la richiesta e il consumo di carne sono aumentati e gli allevamenti si sono ingranditi ulteriormente.
In questi allevamenti, grandi come campi da calcio, migliaia di animali sono sottoposti a poca esposizione solare, poco spazio per muoversi, mancanza di aria fresca, tanto stress che ne altera la corretta funzionalità immunitaria, un ambiente perfetto per l’evoluzione di ceppi virali all’interno di questi organismi. A peggiorare le cose, gli animali negli allevamenti intensivi sono sottoposti a selezioni genetiche specifiche associate a determinate caratteristiche riguardo alle richieste del mercato, come un petto di pollo più grande, per cui risultano tutti organismi molto simili, che il virus infetta molto facilmente e ne quali si replica senza molti problemi. I mercati internazionali e gli spostamenti facilitano, inoltre, la diffusione di questi animali da allevamenti ad allevamenti ampliando la risonanza del problema.
Gli allevamenti intensivi rappresentano una sorta di industria perfetta per creare i virus patogeni più pericolosi.
In un report FAO del 2013 veniva evidenziato come “la salute di questi animali negli allevamenti intensivi rappresentasse l’anello più debole della nostra catena sanitaria mondiale”.
Tutto questo è importante anche nella prevenzione di pandemie batteriche future, non solo virali. Quando si parla di pandemie batteriche ci si riferisce ad un’infezione batterica e ad una conseguente diffusione incontrollata del contagio, così come fu la Peste Nera nel Medioevo. Il rischio maggiore a tal proposito è rappresentato dall’evoluzione di specie batteriche antibiotico-resistenti. L’utilizzo massivo di antibiotici negli allevamenti intensivi aumenta il rischio di creare batteri resistenti in grado di infettare potenzialmente l’uomo senza alcun trattamento antibiotico efficace. Ad esempio, un batterio resistente può diffondersi in un allevamento intensivo di 25.000 polli; questo prima infetterà i polli e poi l’uomo. Quest’ultimo proverà a combatterlo mediante antibiotici, ma si riveleranno inefficaci essendone il batterio resistente. L’infezione così potrà diffondersi facilmente da uomo a uomo con il rischio di originare una pandemia batterica incontrollabile.
Ci sono evidenze sufficienti per affermare che questi animali in condizioni igieniche precarie, sottoposti regolarmente a trattamenti antibiotici rappresentano un incubatore perfetto di batteri mutanti e resistenti che rappresentano una seria minaccia per il futuro dell’umanità.
Cosa possiamo realmente fare per prevenire il rischio di pandemie virali e batteriche in futuro?
La presenza di allevamenti intensivi è conseguente alla domanda crescente di carne soprattutto nei paesi occidentali. Se da una parte è necessario, anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale e dei cambiamenti climatici, ridurre il consumo di carne, dall’altra è fondamentale contrastare l’espansione degli allevamenti intensivi e incentivare la diffusione degli allevamenti al pascolo, riducendo di conseguenza la somministrazione regolare di antibiotici. Nel contempo è importante alimentare la biodiversità negli allevamenti, anziché insistere sulla selezione di specifici tratti genetici degli animali, in modo da ostacolare la diffusione di un potenziale virus: è più difficile infettare se gli organismi sono diversi.
Comments